1918: il prologo dell’offensiva di Vittorio Veneto

Il 18 luglio 1918 è considerato un giorno di lutto nella memoria storica dell’esercito tedesco. Dopo quattro anni di predominio militare su quasi tutti i fronti, persino in fase difensiva, quel giorno segna l’inizio di un “rifluire della marea”: un arretramento che, a causa dell’esaurimento delle risorse umane, non avrebbe più potuto essere invertito.
Il generale Ludendorff, comandante in capo tedesco, aveva lanciato ben quattro grandi offensive sul fronte francese nel corso dell’anno: il 21 marzo, il 9 aprile, il 27 maggio e il 9 giugno. Ognuna di esse aveva messo a dura prova gli eserciti alleati, infliggendo duri colpi soprattutto alle forze britanniche. Tuttavia, nessuna era riuscita a ottenere lo sfondamento decisivo.
Questi sviluppi, che preannunciavano il possibile crollo dell’Impero tedesco, spinsero il governo italiano e gli Alleati a intensificare le pressioni sul generale Armando Diaz, comandante supremo dell’esercito italiano.
L’obiettivo era chiaro: organizzare una grande offensiva per riscattare la disastrosa sconfitta di Caporetto (ottobre 1917) e cancellare l’onta del ripiegamento fino al Piave e al Tagliamento.
Le pressioni giungevano da più fronti. Persino Sara De Cian, moglie di Diaz, da Roma si dice sposasse le opinioni degli “strateghi della capitale”. Il generale si trovò quindi costretto a scriverle lunghe lettere in cui spiegava con precisione la complessità delle operazioni militari e le motivazioni delle sue caute decisioni.
Durante tutto il mese di luglio, le pressioni politiche divennero sempre più insistenti. Ma il punto di rottura si toccò solo in agosto, quando il primo ministro Vittorio Emanuele Orlando si recò personalmente a Padova per incontrare Diaz e il generale Pietro Badoglio.
La riunione fu definita “burrascosa oltre ogni limite”. Diaz e Badoglio erano fermamente convinti che non fosse ancora il momento opportuno per attraversare nuovamente il Piave. Ritenevano troppo alto il rischio di un’offensiva azzardata, che avrebbe potuto compromettere l’intera tenuta del fronte italiano.
Con una mossa diplomatica, Orlando aveva già fatto sapere confidenzialmente al comando militare che si sarebbe accontentato anche di “una piccola vittoria: una cosa da niente”, pur di ottenere un segnale tangibile.

Il Gen. Armando Diaz
Ma quando, a Padova, chiese almeno una promessa di azione, si scontrò con l’opposizione ferma di entrambi i generali. Diaz, in particolare, fu categorico: non avrebbe tollerato ingerenze politiche nelle decisioni strategiche, e in caso contrario avrebbe preferito dimettersi. Un gesto che Orlando accolse con indifferenza, forse già preventivando la possibilità.
Nel clima teso della riunione, Badoglio fu il primo a cedere all’emozione. Colpì il tavolo con un pugno e sbottò:
«Allora dia l’ordine scritto!»
La replica di Orlando fu immediata, secca e indignata:
«Quest’ordine non lo scriverò mai!»
A quel punto, Badoglio – noto per il suo italiano poco ortodosso – lo apostrofò con sarcasmo:
«Ma allora perché viene fin quassù a infelicitarci?»
Col senno di poi, molti storici concordano su un punto essenziale:
fino a fine Luglio Diaz ebbe ragione: poi cominciò ad avere lentamente torto.
La prudenza, giustificata nei mesi precedenti, iniziava ora a somigliare a una paralisi strategica. La situazione internazionale stava rapidamente cambiando, e l’Italia rischiava di perdere l’occasione di un riscatto nazionale proprio nel momento in cui gli Alleati cominciavano a vincere su tutti i fronti.Purtroppo non se ne accorse, ed occorre dire che una gran parte dei guai che ci capitarono all’Italia più tardi, in sede politica, diplomatica (durante la conferenza di pace a Versailles) e morale, nacque proprio da questo unico errore che fu, ancora una volta, di natura psicologica.
Anche Foch dal suo Quartier Generale era stato anche più esplicito: aveva mandato in Italia il suo fedele generale Parisot con una lettera in cui il comando italiano era incoraggiato ad attaccare nuovamente « per assicurare all’Italia, dopo la salvezza, anche la grandezza», ed il consiglio, sia pure sorvolando su quanto di interessato potesse contenere, era saggio ed opportuno.